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IL PIATTO UNICO:
Specialità regionali per vincere
la battaglia dell' export

Intervista al Dr. Claudio Fava raccolta da Carlo F. Gianni.

Al Dr. Claudio Fava, amministratore della società di consulenza internazionale C.F.A. ed esperto di problematiche gastro-alimentari e sociali legate all'esportazione, vogliamo rivolgere alcune domande perché ci illustri la sua teoria del «piatto unico» quale strumento di penetrazione nel mercato agro-alimentare estero.

Dr. Fava, come nasce questa sua convinzione che il «piatto unico» sia l'elemento di conquista del mercato alimentare estero?

La mia non è, intanto, una teoria o una convinzione basata unicamente su presupposti teorici, ma essa poggia sull'esperienza maturata in molti anni di attività nel settore.
Ma andiamo per ordine e vorrei prima esporre brevemente i presupposti da cui nasce la proposta del «piatto unico». Credo innanzi tutto sia indispensabile chiarire che cosa s'intende per gastronomia e cucina italiana.
Per anni gli operatori si sono dannati per trovare dei sistemi alternativi a quelli spontanei che hanno accompagnato l'emigrazione italiana in tutto il mondo affinché si trovassero dei mezzi, dei canali idonei a trasmettere all'estero quelle che erano le nostre aspettative di consumo; dell'erroneità di tale impostazione ci si è resi conto allor quando altre nazioni come la Francia, la Spagna, il Portogallo, la Grecia e, in parte, le cucine orientali, sono diventate pericolose concorrenti della nostra cucina.
Mentre queste nazioni esportavano il contenuto della loro cucina,. in Italia si è operata una separazione, una differenziazione tra cucina e gastronomia. I prodotti gastronomici italiani sono stati esportati all'estero singolarmente (pasta, pomodori, olio, ecc.) con il solo plus che essi rispondevano a regole merceologiche e a legislazio­ni locali. Ma come le singole note non creeranno mai un capolavoro musicale, così i singoli ingredienti alimentari non potranno mai trasmettere le qualità e il gusto della cucina italiana.

Quindi, secondo Lei, bisogna prima esportare la cucina italiana e poi i prodotti che la compongono?

Esatto. E la motivazione è abbastanza semplice: mentre noi italiani conosciamo l'origine della nostra cucina e sappiamo che essa rappresenta la sommatoria delle cucine regionali, gli stranieri che si trovano a contatto con un prodotto tipico italiano, non hanno questo background e, se non adeguatamente informati, non sono in grado di ricavare il piacere di cucinare italiano. Molto spesso l'azienda alimentare che esporta, opera come se dovesse esportare in ... Italia. Raramente si operano indagini di mercato che tengano conto delle caratteristiche peculiari del luogo oggetto di esportazione: inviare prodotti in Giappone piuttosto che negli Stati Uniti non è la stessa cosa. Le aziende che esportano si affidano esclusivamente all'importatore trascurando quasi completamente d'insegnare ai consumatori come fare ad utilizzare i prodotti tipici nostrani. Senza una comunicazione puntuale lo straniero non riuscirà mai ad apprezzare la cucina italiana: essa è un mix di sensazioni, di convivialità a tavola, di piacere di fare qualcosa di italiano perché il «made in Italy» è di moda, è simpatico, può essere un piatto all'interno di una cena o di un pranzo fatto con amici nel quale la massaia o comunque chi ha cucinato si esibisce in una performance gratificante per sé e per gli altri.
Questo messaggio universale riesce a trasmetterlo efficacemente la rete dei ristoranti italiani all'estero. Certo è, però, che i frequentatori stranieri non pensano minimamente di cucinare le stesse identiche cose che hanno mangiato al ristorante: una barriera culturale, di manualità, di consuetudine, di comprensione, di abilità li separa dal cuoco del ristorante.
Il target di riferimento all'estero è incalcolabile, basti pensare che solo gli italiani all'estero sono 50 milioni circa. Le potenzialità per l'esportazione della gastro-alimentazione italiana sono enormi. Quantitativamente quanto vale la ristorazione italiana all'estero? Ben poca cosa: questa realtà contrasta con l'aspetto qualitativo che, invece, adeguatamente valorizzato potrebbe rappresentare l'arma vincente dell'Italia agro-alimentare che si appresta ad entrare nel mercato dell'Europa del 1993.
Da tutte queste considerazioni sono scaturiti sondaggi e analisi che hanno portato alla convinzione che il mercato estero potrà essere conquistato dall'industria agro-alimentare italiana solo se si riuscirà a portare sulla tavola delle famiglie estere, ovunque esse siano, il gusto della cucina italiana.

La sincronizzazione di tutti questi elementi richiederà tempi piuttosto lunghi e soprattutto sarà difficile rendere abitudinario il sistema di alimentazione tipico della cucina italiana dove sono previsti un primo, un secondo, un contorno, una frutta, un dolce, ecc.

La proposta che io faccio alle famiglie all'estero è qualcosa di diverso, di molto diverso da quello che si mangia al ristorante e non entra minimamente in concorrenza con esso che resta la punta di diamante, il testimone del meglio del gusto italiano all'estero.
Quello che io propongo è la realizzazione di un «PIATTO UNICO» mediamente completo e a carattere regionale composto di tre assaggi particolari: il tipo di pietanza internazionale italiana che possa sostituirsi sia ad un pasto completo individualmente considerato, che ad un pasto che contenga prevalentemente i sapori delle ricette italiane, ma con una variante locale che la famiglia, il consumatore privato conta di realizzare.
Il «PIATTO UNICO» regionale diventerebbe, pertanto, la testa di ponte, la locomotiva, dietro cui i vari ingredienti verrebbero trainati. Di conseguenza le varie aziende produttrici, i vari settori merceologici troverebbero una giustificazione nella promozione all'esportazione. Non saranno certo la carne e il pesce che saranno esportati e neanche quei quattro, cinque ingredienti a lunga conservazione che possono rappresentare la cucina italiana all'estero.
L'Italia ha oltre centomila marche alimentari che sono prodotte da oltre sessantamila aziende che formano il patrimonio culturale gastronomico di una nazione che ha il privilegio di appartenere alla propria storia e alla propria cultura.

Quali, secondo Lei, le strategie da approntare per muovere alla conquista dei mercati esteri?

Certo che non si può prendere d'emblée tutta questa storia e tutta questa cultura gastronomica, metterla su un container e spedirla all'estero. Bisogna andare all'estero con intelligenza, creare punti di contatto col vero interlocutore con il quale bisogna confrontarsi: quei cinque, dieci, venti metri quadrati che è la cucina della massaia estera. Inoltre gli operatori debbono produrre una comunicazione rassicurante e soprattutto debbono trasmettere idee chiare tendenti a risolvere i problemi di impatto psicologico insiti nel passaggio dal tipo di cucina locale e quella italiana che sicuramente ha delle caratteristiche più interessanti, ma che spesso e volentieri crea qualche difficoltà per quanto riguarda la fase preparatoria. Le aziende che esportano direttamente all'estero, attraverso filiali o proprie organizzazioni, non sono molte, ma sono grandi e spesso esse vengono acquisite da gruppi stranieri contro i quali la concorrenza dei piccoli produttori può ben poco.
Questi gruppi stranieri che peraltro non hanno sicuramente la cultura gastronomica italiana fanno lentamente, spesso involontariamente, ma ancora più spesso coscientemente, scempio di quello che è il patrimonio culturale italiano ed adattandosi al gusto locale, trasformano il prodotto creando il più grosso reato gastronomico che noi possiamo immaginare a danno della tradizione italiana! Non è certo adattando il gusto a quello locale che si parla di cucina italiana: sono ad esempio oltre mille, le marche americane con nomi di prodotti italiani che danneggiano l'italianità della gastronomia negli Stati Uniti. Per questo abbiamo deciso di lanciare una filosofia intorno alla quale, come in un club, stringere produttori, esportatori, gastronomi, importatori locali, ristoratori e consumatori in un patto di comprensione, in un patto che sviluppi sia l'agro-alimentare italiano sia il patrimonio di piacere che può far aumentare gli utilizzatori di una cucina per la quale finora non sono state approntate strategie globali per farla assimilare.
Con l'ausilio di importanti aziende, nostre clienti, stiamo portando avanti questo progetto.

   
  Maggio 1992
Pagg. 20-22