SPECCHIO
ECONOMICO


   
 
 
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Cina

Una cordata sociale targata WTO per tutelare i diritti dei lavoratori cinesi

di CLAUDIO F. FAVA

Per capire quale siano le possibilità di sviluppo delle piccole e medie imprese italiane occorre individuare quale pericolo ne minacci l’esistenza; in particolare occorre esaminare la Cina. Lo sviluppo dell’economia cinese è molto semplice rispetto a quello più complicato del Vecchio Continente, incastrato in sempre nuovi equilibri resi necessari dall’andamento del mercato globale e dalla ricerca di alternative per evitare l’abbassamento della qualità della vita, del benessere e del welfare raggiunti grazie alla storia dello sviluppo industriale e sindacale occidentale.

In Cina è presente una quantità enorme di forza lavoro che vede come un miracolo la possibilità di affrancarsi anche di poco, anche poco alla volta, da povertà, schiavitù e sofferenze del cinquantennio che ha attraversato il Paese, governato con criteri che spesso non hanno rispettato l’individuo in quanto essere umano. Ma in quale Paese, nel processo storico di identificazione della moderna democrazia, non vi è stato il momento buio della prevaricazione, della forza, dello sfruttamento, della mancanza di rispetto nei riguardi del lavoratore inserito in un processo produttivo comunque utile al progresso?

I tempi sono stati diversi. Oggi i popoli satolli dei Paesi del G8, dell’Europa a 25, dell’ex Commonwealth sviluppato o del wasp-people americano, sono stimolati dalle nuove tigri (o bric) dell’economia - Brasile, India e Cina -, che in diversi aspetti si assomigliano e sono involontariamente alleate tra loro e, conseguentemente, con i nemici del modo di vivere occidentale, certo non perfetto, basato sulle radici dell’illuminismo e proiettato in un non definito orizzonte. Il più autorevole almeno come dimensione dei Paesi in sviluppo a due cifre, la Cina, ha in prospettiva una tendenza positiva.

Possiamo discutere sul concetto positivo dal nostro angolo di visuale, ma basta vedere - fra un milione di cose fatte in fretta e male da un regime che a fatica si sta indirizzando verso i principi di equità - il groviglio di sopraelevate sgangherate che attraversano Shangai, vanto dei suoi 500 grattacieli, pericolose e orribili quanto si voglia ma utili a garantire uno sviluppo. Possiamo discutere sull’alzata di spalle dinanzi al problema dell’inquinamento abbinato al superamento del picco di Hubbart - cioè il consumo del 50 per cento di tutte le materie prime fossili del pianeta - da parte dei governanti cinesi, che dicono: «Finora voi avete fatto come vi pare; ora che stiamo portando un po’ di benessere ai nostri cittadini volete fermarci. Fermatevi voi».

Tante sono le differenze emergenti dai paragoni tra i due mondi situati in una diversa collocazione temporale: tra il nostro, caratterizzato da una maturità che si trasforma in debolezza, il loro, acerbo ma pieno di forza. Nel gennaio 2007 con 5 dollari al giorno un operaio cinese figlio di agricoltori, senza tante pretese, vive abitando anche in capanne intorno alla fabbrica dove lavora, coltivando un fazzoletto di terra per le necessità alimentari. Con 5 dollari di salario per 12 ore, solo quando ha lavoro - a volte 10 giorni all’anno, a volte 200 -, ha dinanzi a sé la prospettiva di un trend positivo, diverso da quello delle famiglie del mondo occidentale che, nella migliore delle ipotesi, debbono lottare per rimanere dove sono e far finta di non accorgersi che «la Cina è vicina», affamata, forte e implacabile. Se non pensa.

Cosa dobbiamo fare allora noi? Soccombere? Diventare maggiordomi colti delle famiglie ricche cinesi? O mercati da conquistare e basta? Fare la guerra? O aiutarli a pensare? La borghesia è in formazione; il mondo culturale cinese, il meccanismo di distribuzione della ricchezza, l’emancipazione dello Stato sono in fermento; il passato viene obliato. Il cittadino, l’imprenditore, il lavoratore, il politico cinese sanno che una cambiale sta arrivando. E qual’è, se non il miglioramento della condizione sociale, il raggiungimento dell’uguaglianza dei diritti dei lavoratori e dei cittadini cinesi, che presto non vorranno più essere considerati come sudditi della fabbrica?

Vi sono ormai centinaia di consulenti internazionali in Cina che arrecano affari, attività e investimenti con l’accortezza di prepararsi sempre la via di fuga, di disinvestimento; perché non sanno più come seguire una legislazione selvaggia, che ricerca il consenso non più di poche migliaia di ricchi e potenti ma di centinaia di milioni di appartenenti alla classe media, di lavoratori dell’industria e del terziario, che stanno formando quel cuscinetto che la Cina non avrebbe pensato mai di avere, come indicato nell’ultimo rapporto Mc Kinsey. In questo scenario, per riequilibrare la competitività nella qualità non è possibile fare accordi bilaterali: è troppo grande la differenza tra Cina e chiunque altro, c’è bisogno di un coordinamento da parte del WTO, l’organizzazione mondiale del commercio.

Anziché dall’azione spesso scoordinata di ministri degli Esteri o del Commercio con l’estero, il comparto delle piccole e medie imprese italiane deve partire dal concetto che la globalizzazione deve riguardare anche l’esistenza di condizioni di lavoro dignitose per i lavoratori. Dobbiamo esportare l’esperienza sindacale, sociale, umana dei diritti dei lavoratori conquistati con battaglie e sacrifici dai protagonisti della storia nei Paesi democratici; dobbiamo fare in modo che anche i lavoratori cinesi siano degni di questo nome. Non è un pensiero di destra o di sinistra, è un diritto naturale di tutti, come il diritto all’aria.

Chiediamo al WTO di creare, in cambio degli strumenti di sviluppo, una normativa semplice e comprensibile che aiuti la crescita dei lavoratori almeno nelle aziende che esportano in Italia, in Europa, nei Paesi del G8 e dell’Ocse; ne raccoglieremo i frutti a vantaggio dell’essere umano e della competitività. La formula è semplice ma ha bisogno di una unità di intenti; se il WTO creasse una fondazione per la sicurezza del lavoro, le aziende cinesi che volessero esportare nei Paesi sviluppati dovrebbero applicare internamente le normative sulla sicurezza del lavoro, sul rispetto delle regole verso i dipendenti, sulla certificazione di qualità, sulla tutela del lavoratore in caso di cessazione del rapporto di lavoro, come nei mercati ai quali sono diretti i prodotti realizzati in Cina.

I Paesi importatori dalla Cina dovrebbero versare un’aliquota del 10 per cento a un fondo costituito in joint-venture tra il WTO e il Ministero del Lavoro cinese per finanziare, secondo regole prefissate, le aziende cinesi non in regola con le norme imposte dal WTO per esportare nei mercati occidentali, nei quali è impossibile produrre senza tutelare la sicurezza dei lavoratori. Si attuerebbe un meccanismo di solidarietà e un’alleanza tra gli operai cinesi e i consumatori dei Paesi sviluppati. Una sorta di «bollino blu» per le aziende esportatrici, il cui denominatore comune sarebbe il rispetto dell’uomo che prevale sul vantaggio economico, e non il vantaggio economico in un’ottica di sfruttamento a tutti i costi delle risorse. Il pensiero, un passo per volta, diventerà sistema.

   
  Giugno 2007 Pag. 66