SPECCHIO
ECONOMICO


   
 
 
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GLOBALIZZAZIONE E LIBERISMO SOCIALE.
La politica crei i vincoli, le risorse facciano il mercato.

di CLAUDIO F. FAVA

La globalizzazione non è altro che la conseguenza dell’espansione di alcuni mercati produttivi che, sgomitando, cercano di creare degli spazi nuovi sia di consumo che di risorse a basso costo. La definizione di “energia dei singoli mercati sociali ed economici verso un’energia economica globale” per la globalizzazione, veste a pennello la realtà che è emersa dal baratro in cui la mancanza di regole, principi, controlli e superficialità, ha fatto cadere l’economia mondiale. I mercati senza controlli adeguati prima o poi flettono e gettano oltre il bordo della dignità milioni di persone e miliardi di euro di risorse.

Da questa superficialità tipicamente occidentale, sono nate le esigenze di nazionalizzare le banche e creare strumenti quali i “Tremonti-bond” che favoriscono il coraggio dei banchieri con la mentalità dei bancari: vero problema della ripartenza del nostro Paese. Cacciatori di ideologie esperti, gridano allo statalismo (e su questo consiglio di leggere «LA CRISI» di Alberto Alesina e Francesco Giovazzi), e Stati che hanno investito in finanza senza concretezza, cercano di contenere i danni, danni tali che hanno addirittura frenato il PIL della pseudo invincibile Repubblica Popolare Cinese.

Dall’eccesso del liberismo parente del libertinismo economico, veloce nella crescita dei numeri e superficiale nella costruzione delle regole, sono nati megabusiness di nicchia, scollegati e prepotenti, che vedono, oggi, l’ex numero uno dell’energia non islamico, Medvedev, prendere il posto del numero uno del più vasto paese del mondo. Dopo il grande boom americano del dopoguerra e la morning in America Reganiana, è nata la guerra virtuosa ma delicata tra il progresso tecnologico ed il petrolio, poi gas, poi energia, e tutti stiamo ancora assistendo a queste due grandi risorse che si fronteggiano: da un lato il prodotto dell’intelligenza, dall’altro una risorsa della terra.

Questa contrapposizione è basilare per capire dove occorre andare per garantire un miglioramento dell’esistenza per tutti i cittadini del mondo in quanto esseri umani, senza il rischio di ingerenze stataliste nella determinazione del futuro dei destini degli individui. E’ vero che vi sono delle multinazionali così grandi da avere il potere di influenzare l’elezione dei governi, ma è anche vero che i governi, finché in maggioranza eletti dal popolo, potranno chiedere che vengano garantiti i limiti dello sviluppo, la tutela delle essenzialità economiche e sociali, la libertà in pratica sotto tutela, la tutela dell’interesse dell’essere umano, della famiglia, della solidarietà.

A mio avviso il dibattito tra “sociale” e “liberismo” è nell’esaminare le priorità di azione tra essenziale e benessere. Tutti hanno diritto alle cose essenziali, quali l’esistenza, l’esistenza solidale e l’assistenza ai propri familiari, una costituzione, un parlamento elettivo su base popolare, una politica di diritto al lavoro ed una assistenza formativa in attesa di un altro lavoro, studio, difesa ed assistenza sanitaria; queste sono alcune delle cose essenziali di una umanità, sia essa nazionale o plurinazionale o appartenente ad una federazione di Stati.

Tutti hanno diritto altresì all’opportunità del benessere, del progresso, della collocazione delle proprie capacità, intuizioni ed idee in un ciclo virtuoso che è ricchezza, per se, per i propri familiari, per coloro che partecipano al processo produttivo e per la nazione, che benedicendo queste capacità ne usufruisce in termini di Know-how e di accumulo di risorse per finanziare lo sviluppo. Per realizzare tutto ciò ci vuole un grande liberismo, oggi veicolato dalla globalizzazione, alla quale noi europei siamo arrivati, chi più, chi meno, in ritardo e che è senza alternativa.

Ciò che invece ha alternativa è la condizione di vincoli che non debbono essere più basati solo sulle Authority, benedetti paracatude che tappano le falle di molte contraddizioni politico-economiche, agendo da “front-runner” per le coesioni sociali spesso dimenticate dallo sviluppo sfrenato dell’economia. Vedi ad esempio la recente carbonizzazione di miliardi di euro sotto forma di speculazioni ad orologeria che nessun controllore ha controllato, da quelli globali a quelli particolari, dalle authority delle borse, alle banche centrali, dalle associazioni bancarie ai collegi sindacali delle Società quotate in Borsa, alla SEC (Security Exchange Commission) ed alla CONSOB.

La politica crei i vincoli, le risorse facciano il mercato, la globalizzazione è inarrestabile, quindi non vi è più nessuno che la possa condizionare, ma indirizzare si, creando le condizioni per la solidarietà, la coesione sociale, l’equilibrio delle opportunità. Questo sì, è possibile che possa far parte dell’agenda del futuro G50. Dico G50 perché un nucleo che imposti le regole per tutti ci deve pur esservi, e mentre dieci o quindici Stati sono pochi, tutti sono ingestibili. Quindi occorre creare una condivisione diciamo "a maggioranza qualificata" che rappresenti il nocciolo duro di WTO, ONU, OCSE, FMI per indicare la rotta del progresso liberista del mercato che dovrà garantire la solidarietà della condizione sociale dell’individuo.

In tanti Paesi del mondo i meccanismi dello sviluppo, da quello industriale a quello sociale, dove spesso legalità e legislazione hanno un collegamento non sempre omogeneo per garantire uno sviluppo credibile, la condizione standard del liberismo sociale è, a mio avviso, la democrazia delle opportunità per tutti, nel rispetto delle necessità di ogni singolo cittadino di uno Stato. E ciò si fa spingendo le capacità intellettive a creare, gli uomini ad intraprendere, in quanto il progresso generato è come una joint-venture virtuosa tra il cittadino ed il proprio Stato, nel contesto di un dialogo di convivenza con il resto dell’umanità.

Occorre quindi, ad un Paese come il nostro, andare con risorse intelligenti a prendere, nei nuovi mercati, ciò che serve e contemporaneamente conquistare una quota di essi; far “emigrare” il know-how esattamente come sono emigrati i nostri avi andando dove c’era lavoro e quindi ricchezza da sviluppare. E se i Tremonti-bond riusciranno ad alimentare le improcrastinabili necessità di sviluppo delle oltre 3 milioni di piccole e medie imprese italiane, consentiranno un recupero di grande rilievo del gap verso la redditività delle risorse, anche entro il 2009, per preparare nel triennio successivo una mutazione industriale epocale, ma indispensabile.



 

   
  Ottobre 2009